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Controllare l’asma con una terapia di mantenimento fa bene anche all’ambiente

Un gruppo di clinici si è interrogato su un aspetto particolare della gestione del paziente asmatico, ovvero il suo impatto ambientale. Un elevato numero di riacutizzazioni e ospedalizzazioni, così come un ampio ricorso ai farmaci al bisogno (SABA) determinano un aumento della carbon footprint per l’emissione dei gas-serra presenti negli inalatori e associati ai vari interventi medici


Il modo in cui si tratta un paziente può avere un impatto a livello ambientale? Nel caso dell’asma la risposta è sì. Gli aerosol dosati pressurizzati (MDI), infatti, contengono dei propellenti che agiscono da potenti gas-serra. A titolo di esempio, basti considerare che circa il 3% dell’impronta di carbonio (carbon footprint) del Sistema sanitario britannico è ascrivibile a tali propellenti.

In attesa che i gas attualmente presenti negli MDI vengano completamente eliminati, è possibile agire ad altri livelli per favorire la preservazione dell’ambiente.

Il primo prevede il controllo della malattia asmatica con una terapia di mantenimento. Le esacerbazioni dell’asma e le conseguenti ospedalizzazioni, infatti, aumentano l’emissione di gas-serra a seguito degli interventi medici attuati. Uno studio inglese ha inoltre osservato che un paziente con asma ben controllato, quindi con uno scarso ricorso ai SABA e senza esacerbazioni, ha una carbon footprint pari a solo un terzo di quella di un paziente con la malattia non controllata.

La carbon footprint di un paziente con asma controllato è pari a un terzo di quella di un paziente con malattia non controllata.

Purtroppo in Europa si fa ancora largo uso di SABA al bisogno, tanto che in alcuni Paesi il 30-40% dei soggetti asmatici consuma ≥3 contenitori di SABA all’anno.

Il secondo livello sul quale intervenire è la scelta dell’inalatore. Benché gli MDI contengano diversi propellenti e in quantità differenti, infatti, presentano comunque una carbon footprint superiore a quella degli inalatori a polvere secca (DPI) e degli inalatori soft mist, entrambi privi di propellenti.


Carbon footprint per erogazione (espressa come equivalente in grammi di CO2)


MinimoMassimo
MDI49,3529,5
DPI6,1327
Inalatori soft mist3,8312,92

Ne deriva come avviare subito un paziente a un DPI o effettuare uno switch da MDI a DPI ove possibile dal punto di vista clinico potrebbe favorire l’ambiente e, parallelamente, supportare un miglior controllo dell’asma.

Nella scelta dell’inalatore deve ovviamente essere coinvolto anche il paziente. Nella maggior parte dei casi, inclusi i soggetti anziani o con una funzione polmonare ridotta, non vi sono impedimenti all’utilizzo dei DPI e gli MDI potrebbero essere riservati solo a quei pazienti che non riescono o sono riluttanti a utilizzare un DPI.

In un recente studio inglese solo il 6,3% dei pazienti valutati non era in grado di inalare abbastanza velocemente da utilizzare un DPI a resistenza elevata.


Perché il cambiamento di rotta sia davvero effettivo è necessario che le soluzioni sopra descritte vengano applicate al maggior numero possibile di pazienti. Come fare? Un primo passo prevede che le stesse linee guida di trattamento includano il tema della sostenibilità ambientale, evidenziando le differenze fra MDI e DPI a questo proposito, seguito dall’aumento dell’aderenza alle stesse da parte dei clinici.

Purtroppo l’organizzazione dell’ambulatorio spesso non consente di dedicare un tempo sufficiente alla valutazione della tecnica inalatoria del paziente, ma è importante ricordare che proprio tale valutazione, che si associa al controllo di malattia, può ridurre il numero di esacerbazioni, di ricorso ai SABA e di ospedalizzazioni, con un impatto globale positivo sulla salute ambientale.

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