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Identificazione precoce e trattamento della sepsi: bisogna fare di più a livello locale ed europeo

Una survey internazionale ha valutato il livello di organizzazione dei principali ospedali europei in merito allo screening e al trattamento precoce della sepsi nei vari reparti: purtroppo non si sono ancora raggiunti gli obiettivi proposti dalla risoluzione dell’OMS e vi sono notevoli differenze anche fra le diverse regioni geografiche del continente


Nel 2022 i ministri con incarico alla salute del G7 hanno ribadito la necessità di intensificare gli sforzi per favorire l’identificazione precoce, la diagnosi e il trattamento della sepsi, così da implementare la risoluzione 70.7 dell’OMS in merito.

Ogni anno si registrano 49 milioni di nuovi casi di sepsi e 11 milioni di morti a livello globale.

Ma qual è lo stato di salute dei principali ospedali europei e come sono organizzati per far fronte alla sepsi e a questa richiesta di maggiore impegno? Per rispondere a questa domanda tra il 2021 e il 2022 è stata condotta una survey online internazionale (European Sepsis Care Survey), a cui hanno risposto ben 1.023 ospedali di 69 Paesi, di cui 835 in Europa: i dati raccolti, purtroppo, non sono incoraggianti.

Già a livello di definizione di sepsi si registrano delle differenze. Infatti il 45,4% degli ospedali fa ricorso ai criteri Sepsis-3, impiegati maggiormente in nord e sud Europa rispetto all’Europa orientale e occidentale e negli ospedali universitari rispetto a quelli non universitari.

L’implementazione di uno screening standardizzato per un’identificazione precoce della sepsi si è registrata nel 54,2% dei reparti di urgenza, nel 47,9% degli altri reparti e nel 61,7% delle UTI. Inoltre tale screening viene effettuato quotidianamente nel 51% dei reparti e nel 75,8% delle UTI.

Nei reparti, anche d’urgenza, in cui tale screening viene applicato, i criteri adottati includono la frequenza respiratoria, la pressione arteriosa, la temperatura corporea, la frequenza cardiaca e alterazioni mentali; nelle UTI si aggiungono anche i lattati.

Gli ospedali che ricorrono ai criteri Sepsis-3, inoltre, tendono ad applicare maggiormente il punteggio rapido Sequential Organ Failure Assessment, soprattutto nelle UTI.

Altro dato interessante evidenzia come circa l’80% di chi opera negli ospedali del nord Europa abbia indicato la presenza di un team di medicina di emergenza in grado di dare supporto per un’identificazione precoce dei pazienti critici; in tutte le altre aree geografiche la disponibilità di tale team è notevolmente inferiore.

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Altrettanto importante è il riscontro della disponibilità di protocolli standardizzati per la gestione della sepsi nel 57,3% dei reparti di urgenza, nel 45,2% degli altri reparti e nel 70,7% delle UTI; inoltre vi sono differenze significative in tali protocolli nelle diverse regioni geografiche.

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Attenzione è stata rivolta anche alle infrastrutture che consentono l’identificazione e il controllo della fonte dell’infezione. In particolare TC e RM disponibili per tutte le 24 ore sono state indicate da circa il 90% degli ospedali, mentre una percentuale simile ha segnalato limitazioni alla diagnostica microbiologica, ovvero mancanza di possibilità di mettere a incubare le culture ematiche, identificare il patogeno e comunicare i risultati al di fuori dell’orario lavorativo principale.

Ricorrere a un intervento chirurgico per eradicare la fonte dell’infezione senza limiti di tempo è risultato possibile nell’87% degli ospedali, in particolar modo in quelli dell’Europa occidentale.

Infine meno di un terzo di chi ha risposto alla survey ha segnalato la presenza di programmi volti a migliorare la presa in carico della sepsi: solo nel 9,8% degli ospedali esistono Quality Improvement Initiative (QII) in tutti i reparti su base regolare, con differenze significative fra le regioni geografiche.

In estrema sintesi, le linee guida internazionali raccomandano fortemente lo screening della sepsi e l’implementazione di procedure operative standard per la gestione della stessa, tuttavia dalle risposte emerge che lo screening viene effettuato nel 62% delle UTI e in circa la metà degli altri reparti e spesso con una cadenza non quotidiana. Vi sono quindi ampi margini di miglioramento sui quali è necessario intervenire, per esempio aumentando il ricorso a tool in grado di favorire un’identificazione precoce della sepsi e favorendo l’implementazione di protocolli di trattamento locali basati al contempo sulle linee guida internazionali e sulle risorse disponibili.

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